L’esperienza di una chirurgia minivasiva con laser a fibre ottiche

Una doppia intervista che ci racconta com’èstato il primo approccio del gruppo flebologico dell’Ospedale di Padova con il laser endovenoso, nei primi anni 2000, della loro attenzione verso la malattia venosa e del loro approccio universitario e quindi di studio e ricerca verso tutte le tecniche che si affacciavano, in quegli anni, sino alla scelta verso una tecnica divenuta “gold standard”.
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Patrizia Pavei

05 Agosto 2022

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Dott.ssa Pavei, dove ha maturato la sua esperienza in ambito flebologico?

Io lavoro presso l’azienda ospedaliera di Padova e in particolare nell’unità di Day/Week Surgery, che segue interventi di chirurgia ambulatoriale e ricovero breve: all’interno di questo reparto c’è una sezione direi “storica” dedicata alla flebologia, dove trattiamo questa patologia a 360 gradi, dalla diagnostica all’ulcera vascolare, dall’ulcera venosa alla malattia varicosa, fino alla trombosi
venosa profonda.

Com’è stato il suo primo approccio con il gruppo flebologico di Padova?

Quando sono entrata in specialità, quindi qualche anno fa ormai, all’interno del reparto di chirurgia generale che frequentavo si seguivano in particolare le patologie neoplastiche dell’esofago e si eseguiva quindi una chirurgia piuttosto complessa; allora c’era anche il dottor Baccaglini che contestualmente seguiva invece la patologia venosa, considerata un po’ la cenerentola della patologia
vascolare; fin da subito la flebologia mi ha affascinato e appassionato, un po’ per l’impronta universitaria che era stata data all’approccio a questa malattia, un’impronta che veniva dalla grossa chirurgia, trasferita a questo ambito meno impegnativo dal punto di vista clinico e diagnostico, e un po’ perché questa patologia più semplice consentiva a noi giovani specializzandi di entrare più direttamente in contatto con la propria abilità: avevamo più spazio per occuparci sia della diagnostica sia del decorso post-operatorio dei pazienti sia infine dell’ambito terapeutico, perché riuscivamo a gestire gli interventi chirurgici di safenectomia in maniera abbastanza autonoma già nei primi anni della nostra formazione e questo sicuramente era un buon incentivo per un giovane medico che voleva mettersi alla prova e valutare le proprie capacità.

Ma quando parla di approccio universitario intende di Ricerca e Sviluppo?

Esattamente: nella maggior parte dei reparti, la totalità dei casi di malattia venosa veniva indirizzata alla safenectomia, con un stripping lungo per qualunque paziente si presentasse e non c’erano molte variabili; il nostro approccio, invece, è stato fin dall’inizio un po’ diverso e lo è tutt’ora: in prima battuta studiavamo il paziente, cercando di capire com’era la malattia venosa, dove si distribuiva, qual era l’origine della varice e, sulla base del dato diagnostico,  veniva indicato un trattamento ad hoc, su misura per il paziente, che negli anni ottanta era una cosa per nulla scontata nella maggior parte dei centri e delle chirurgie generali e vascolari; oltre a ciò, l’approccio universitario prevedeva anche la raccolta e l’analisi dei dati per la ricerca scientifica, il che consentiva di valutare i risultati; infine, era un approccio che permetteva di avere uno sguardo aperto verso nuove metodiche, verso le diverse possibilità di trattamento della malattia venosa.

È a questo punto che inizia il suo interesse per le tecniche endovascolari?

Certo; tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, i pazienti che arrivavano alla nostra attenzione con una malattia venosa avevano la possibilità non solo di essere sottoposti a un intervento tagliato su misura per loro, ma anche di essere avviati a un trattamento endovascolare; all’epoca ovviamente non c’erano ancora le metodiche termiche (radiofrequenza e laser) ma c’era comunque un trattamento endovascolare – probabilmente il primo trattamento endovascolare nella storia della flebologia – e
cioè la scleroterapia; proprio a quell’epoca, Schadeck, un collega francese, iniziò a studiare più accuratamente la malattia venosa con l’ecografia, portando l’uso dell’ecografia nel trattamento sclerosante; nel 1990 poi ci siamo recati in Francia proprio per vedere come seguivano i pazienti e come utilizzavano l’ecografia in campo flebologico.

Questa prima esperienza ci è servita non solo per acquisire una grande manualità nell’incannulare il vaso sotto guida ecografica, ma allo stesso tempo per capire cosa succedeva al vaso ogni volta che iniettavamo la sostanza sclerosante; quindi riuscivamo a effettuare il trattamento sclerosante non più alla cieca e anche a fare il monitoraggio post-trattamento. Questo è stato un grandissimo vantaggio quando abbiamo iniziato ad approcciare il trattamento endovascolare termico, perché l’abilità sia nell’incannulare il vaso sia nel valutare i risultati delle tecniche endovascolari era già nel nostro bagaglio culturale.

La Francia in quel momento era più evoluta?

Diciamo che i primi a utilizzare l’ecografia nella scleroterapia sono stati loro: oltre a Schadeck e Vin, i primi flebologi francesi a pubblicare dati sulla scleroterapia ecoguidata e sul monitoraggio ecografia dei risultati, Claude Franceschi propose una diagnostica più accurata della patologia venosa e mise a punto la tecnica conservativa CHIVA.

Com’è iniziata e come si è sviluppata l’esperienza con il laser endovenoso?

L’uso del laser endovenoso fa il suo esordio nei primi anni duemila e la nostra esperienza inizia in quegli anni, proprio perché, avendo già una visione endovascolare della malattia venosa, volevamo provare questo nuovo dispositivo e valutare se ci potesse offrire dei vantaggi rispetto alla scleroterapia. Le prime esperienze con le lunghezze
d’onda più basse – 810 nanometri (nm), 940 nm e 980 nm – devo dire che non mi avevano entusiasmato. Il decorso post operatorio di questi pazienti, trattati con i laser che avevano come bersaglio fisico l’emoglobina e non l’acqua,
e con le fibre piatte, con emissione frontale della luce laser, non era molto differente da quello di un paziente
sottoposto a safenectomia. Nel nostro gruppo, chi ha seguito l’evoluzione di questa metodica con grande attenzione e grande spirito critico,cercando di comprenderla fino in fondo, è stato il dottor Spreafico; noi del gruppo sicuramente ne abbiamo beneficiato e io personalmente ho cercato di capire quali potessero essere le sue potenzialità.
A cambiare radicalmente il decorso post-operatorio e l’approccio al paziente sono stati l’avvento delle fibre radiali e l’utilizzo del laser a 1470 nm che ha come bersaglio l’acqua. Quando il dottor Spreafico ha iniziato a utilizzare questi nuovi materiali, ho maturato un interesse completamente differente verso questa metodica, perché l’uso delle fibre radiali e di una diversa lunghezza d’onda ha migliorato in maniera drastica il decorso post-operatoriodel paziente e ridotto praticamente a zero le ecchimosi e gli ematomi che si potevano osservare con le fibre piatte e laser con lunghezza d’onda inferiore.

In definitiva,con l’avvento di questi nuovi materiali ho abbracciato pienamente il laser endovenoso e non l’ho più abbandonato. Negli anni abbiamo affinato la metodica e siamo riusciti a ottenere risultati che forse all’inizio erano quasi impensabili.

Quindi la fibra radiale è stata una svolta?

Sì, perché l’emissione frontale della luce, come avveniva con le fibre piatte, funzionava come una specie di bisturi; nei primi anni in cui c’era solo questo tipo di fibre, i danni parietali che produceva davano parecchio dolore, oltre a ematomi ed ecchimosi, e quindi il decorso post-operatorio non era sicuramente diverso da quello di una safenectomia, anzi qualche volta era anche peggio… invece con la fibra radiale la luce viene emessa non più dalla punta, ma attraverso prima uno e poi due anelli, e in direzione laterale rispetto alla fibra, che non è più scoperta ma è protetta da un cappuccio: l’energia non è concentrata in un punto ma
viene diffusa sui due anelli ed è quindi distribuita in modo più uniforme… tutto questo ha modificato radicalmente
il decorso post-trattamento. I motivi sono ben dimostrati dagli esami istologici effettuati su segmenti di vene trattate: è evidente un danno da carbonizzazione con le fibre piatte che invece non si osserva assolutamente con le fibre radiali, che producono un danno termico completamente differente.

Considerata l’esperienza che avete avuto con tutte le metodiche endovascolari di trattamento delle varici, quale ruolo attribuisce al laser e quali sono secondo lei vantaggi e svantaggi?

Come accennavo prima, abbiamo avuto sempre un approccio universitario verso la malattia venosa, quindi non ci siamo mai preclusi la possibilità di sperimentare anche altre metodiche: oltre al laser abbiamo provato anche l’altra tecnica endovascolare termica, che è la radiofrequenza, e più recentemente ci siamo avvicinati anche alle metodiche
non termiche, quindi alla colla, in particolare. Diciamo che pur avendo un’ampia esperienza e una notevole dimesti-
chezza con l’utilizzo del laser endovenoso, abbiamo sempre cercato di essere molto equilibrati e di provare anche le altre metodiche per capire se potessero offrire qualcosa di più o qualcosa di diverso rispetto al laser; sicuramente, dal punto di vista dei risultati, se facciamo un confronto con la radiofrequenza, che più o meno è comparsa nello stesso periodo del laser e quindi ha una storia abbastanza simile, non ci sono grosse differenze. I risultati sono buoni con entrambe le metodiche; io preferisco il laser alla radiofrequenza per il fatto di poter utilizzare, a mio avviso, materiali più duttili che ci consentono di trattare più quadri varicosi, anche complessi; per esempio il laser permette di utilizzare anche la fibra Slim, più sottile, che può essere introdotta all’interno della vena direttamente con un ago: questa fibra quindi può essere utilizzata anche per trattare tratti molto brevi di tronco incontinente che sono tipicamente presenti nelle recidive da cavernomi inguinali, per trattare safene accessorie molto tortuose nel
loro tratto di origine; quindi consente di affrontare anche alcuni quadri che non sono prettamente casi ideali per il trattamento termico endovascolare; la radiofrequenza ha sicuramente un catetere un pochino più grosso, ha la possibilità di utilizzare uno stiletto, cioè un catetere più corto, che può essere utilizzato anche per le perforanti, ma che sicuramente è meno facile da manovrare rispetto alla fibra Slim, utilizzabile in tantissimi quadri.
L’altra metodica, la colla, ha sicuramente dei vantaggi legati al fatto che non richiede l’uso dell’anestesia tumescente, non emette calore e quindi è meno dolorosa come tecnica; essendo l’ultima nata tra le tecniche endovascolari, probabilmente ha e avrà un ruolo nel trattamento della malattia venosa sempre più ampio a mano a mano che i dati della letteratura ci chiariranno degli aspetti non ancora del tutto compresi, come per esempio la possibile reazione
da corpo estraneo alla colla, e il fatto che alcuni pazienti non possono essere sottoposti a questa metodica, come i soggetti pluri-allergici o che hanno una grossa reattività nel loro sistema immunitario; infine c’è da considerare anche il costo di questa tecnica, che è ancora piuttosto elevato.
Quindi in definitiva il maggiore vantaggio del laser è a mio parere la duttilità, mentre i punti deboli sono quelli di tutte
le tecniche termiche, e si riducono fondamentalmente al dover fare l’anestesia tumescente, che sappiamo richiedere una certa manualità, una certa pratica e una certa pazienza:consideriamo che i chirurghi spesso sono abituati ad essere rapidi nella loro gestualità e la pazienza non è proprio una delle loro doti migliori; quindi a volte vedono questo tipo di anestesia come una limitazione, una difficoltà in più… in realtà, secondo me, per le tecniche termiche l’anestesia tumescente è un qualcosa in più che facciamo per il paziente, perché non solo assicura l’analgesia ma offre un manicotto di protezione intorno alla vena ed evita che si
possano creare complicanze, come danni neurologici o ustioni della cute se il vaso è molto superficiale; allo stesso tempo, un’anestesia tumescente ben fatta consente di far collabire la vena e quindi azzerare sostanzialmente il suo lume, permettendo di ottenere migliori risultati. Quindi l’anestesia tumescente non è un ostacolo ma un’arma in più…
Sì esattamente: un’arma in più che consente di estendere ulteriormente le indicazioni della nostra metodica termica, sia su vasi di dimensioni molto ampie sia su vasi che magari hanno una posizione anatomica non favorevole, cioè vasi superficiali o tratti più vicini ai nervi, come possono essere il tronco di gamba della grande safena o la piccola safena dal terzo medio di polpaccio al malleolo, quindi nella parte distale. È ovvio che, per effettuare una buona anestesia tumescente, è fondamentale avere un’adeguata preparazione ecografica: non dimentichiamoci che è una tecnica ecografica e che quindi chi vi si approccia deve sicuramente avere nel suo bagaglio culturale una buona capacità di diagnosi e una preparazione ecografica; non sempre è così, perché alcuni
considerano questo intervento semplice… è sicuramente semplice, ma richiede competenze particolari sia per la
preparazione ecografica sia per lo strumento. Utilizzando un apparecchio laser, dobbiamo sapere quali sono i limiti e i rischi correlati all’uso di questo tipo di apparecchiatura perché, come tutte le cose, anche il laser ha i suoi rischi…

Come tutti gli strumenti, va conosciuto…

Esattamente: quando ci si approccia a questa metodica è ovvio che occorra prima studiare le caratteristiche dello strumento e quali sono i suoi possibili effetti collaterali o complicanze legate all’uso stesso.

Parliamo un po’ più diffusamente delle indicazioni: lei ha accennato prima all’accortezza che bisogna avere nei diversi tipi di pazienti: quali sono le situazioni limite in cui può essere utilizzato il laser endovenoso?

Faccio riferimento alla nostra esperienza: all’inizio, siamo partiti con il laser endovenoso ponendo indicazione solo per i casi ideali, cioè pazienti con safena rettilinea, con un diametro medio non eccessivo, non superiore agli 8-9 mm, e una quantità di varici limitata; successivamente, sia grazie allo sviluppo delle fibre Slim sia grazie alla dimestichezza che noi stessi abbiamo acquisito con la metodica, via via le indicazioni si sono estese, tant’è che, mentre prima poteva essere trattato con la metodica laser il 40% circa della patologia venosa, attualmente viene trattato il 95-98% delle insufficienze tronculari, proprio grazie alla nostra esperienza, alla capacità e alla possibilità di utilizzare dei piccoli trucchetti: se, per esempio, c’è un vaso particolarmente tortuoso, il tronco safenico si può approcciare anche con un doppio accesso; se il vaso è molto superficiale,
si può proteggere la cute con un’anestesia tumescente molto ben fatta e accurata; se il vaso è molto tortuoso, si può utilizzare la fibra Slim per intervenire all’origine della cross incontinente…Insomma, abbiamo tutta una serie di piccoli trucchetti acquisiti nel tempo, che ci consentono ora di trattare veramente la grande parte della patologia tronculare safenica con la metodica laser.
Quando i colleghi vengono a visitare il nostro centro per vedere come usiamo la metodica e per iniziare ad utilizzarla, io non do mai il suggerimento di usarla nei casi limite, ma di fare il nostro stesso percorso, iniziando con dei casi più semplici e, via via che si acquisisce esperienza, ampliare le indicazioni: così facendo, sicuramente si ottengono ottimi risultati e poche complicanze.

Altra cosa fondamentale è il setting nel quale il paziente viene trattato, non è così?

Esattamente, perché l’abitudine del chirurgo è quella di avere il paziente anestetizzato, mentre con questa metodica si usa un setting ambulatoriale: il paziente viene messo in piedi nella stessa giornata, dopo un’ora, e poi dimesso; l’anestesia è di tipo locale e richiede una certa abilità per essere fatta bene: in questo modo, permette di ridurre al massimo le complicanze, perché il paziente è
sveglio e nel momento in cui ci avviciniamo a un nervo o a una struttura nobile sentirà un formicolio o una scossa e ce lo potrà riferire immediatamente, consentendoci di bloccare l’emissione del laser per fare un’ulteriore anestesia o per spostare leggermente la sonda, in modo da evitare un danno del nervo stesso.

È come se in un certo senso ci potesse essere una guida…

Sì, il paziente è sveglio e ci può guidare: se non ha nessuna sintomatologia, nessun dolore, evidentemente non stiamo creando danni; se sente dolore è un allarme che ci mette subito al riparo da complicanze più serie, tant’è che in letteratura le complicanze o di ustioni o di danno neurologico vengono segnalate per lo più da chi ha utilizzato la tecnica in anestesia spinale o generale, perché in questo caso ovviamente non c’è alcun feedback da parte del paziente.

Attualmente questa tecnica laser si può ritenere standardizzata?

Inizialmente, il fatto che fosse una tecnica non standardizzata era proprio l’obiezione che molti muovevano al laser e che quindi molto del risultato dipendesse dall’esperienza dell’operatore; bisogna dire a riguardo che grazie anche all’impegno del dott. Spreafico è stato messo a punto un protocollo molto semplice che consente di decidere con una semplice regola qual è l’energia necessaria per ottenere un buon effetto sul vaso da trattare.

Qual è questa regola?

È la famosa regoletta del x20 e del x10: semplicemente, se abbiamo un vaso di 10 mm di diametro, nei primi 5 cm in prossimità della cross si somministrano 200 joule (J) al centimetro, cioè 20 J x 10 mm di diametro, mentre nel tronco safenico a valle si utilizza la regola del x10: 10 mm moltiplicato per 10, cioè 100 J: con questa semplicissima regola possiamo elaborare un protocollo su misura per ogni paziente.

Anche delle indicazioni per supportare nell’esecuzione della tumescenza potrebbero entrare in un protocollo?

Per quanto riguarda l’anestesia tumescente, i vari utilizzatori del laser possono avere delle miscele un po’ differenti, quindi non è detto che l’anestesia che utilizzo io sia la stessa che utilizza un altro centro… noi abbiamo deciso di utilizzare la soluzione di Kline, che in letteratura è supportata da un’enorme quantità di dati ed è la stessa che usano i chirurghi plastici per fare le liposuzioni… è stata usata in maniera estensiva senza complicanze; ciò non toglie che alcuni colleghi possano fare delle variazioni sia nella tipologia di anestetico locale che viene utilizzato sia nell’aggiunta di bicarbonato.

Com’è fatta la miscela di Klein?

Prevede l’uso solo di lidocaina al 2% in quantità di 400 mg in 500 ml di soluzione fisiologica, 2 cc di bicarbonato allo 0,4% e 0,2 mg di adrenalina; noi usiamo sempre ed esclusivamente questa e ci siamo sempre trovati benissimo, non solo per fare l’anestesia tumescente del trattamento endovascolare, ma anche per effettuare le flebectomie: in altre parole, usiamo esattamente la stessa miscela per tutto il trattamento del paziente: questo è un enorme vantaggio, perché conosciamo sempre esattamente la quantità di anestetico che utilizziamo… bisogna ricordare che, oltre un certo limite, anche un anestetico locale può causare cardiotossicità e neurotossicità. In definitiva, usare questo protocollo fisso ci consente di avere sotto controllo anche le possibili complicanze da anestesia locale.

Ma qual è il segreto per ottenere dei buoni risultati e poche complicanze?

Per avere buoni risultati e poche complicanze sono fondamentali poche cose: conoscere la patologia venosa e quindi avere una diagnosi accurata, avere una buona competenza ecografica vascolare; fare un’adeguata anestesia tumescente per riconoscere eventuali sedi a rischio; conoscere lo strumento laser. Per esempio, quando trattiamo la safena accessoria anteriore con il laser spesso la troviamo posizionata praticamente sopra l’arteria femorale superficiale: vederla ecograficamente è utilissimo, perché siamo in grado di effettuare un’anestesia tumescente che isoli l’arteria femorale superficiale dalla safena da trattare; è evidente che se noi non abbiamo una buona capacità ecografica, questo dato ci può sfuggire; lo stesso si può dire di qualche piccola arteriola, soprattutto a livello inguinale: vederla ecograficamente ci consente di allontanarla, di isolarla in qualche modo dal nostro trattamento termico…e sappiamo che alcune fistole arterovenose sono descritte tra le complicanze del laser… probabilmente se non si ha un occhio attento anche a questi piccoli particolari anatomici può capitare che si verifichino questo tipo di complicanze.

E per quanto riguarda lo strumento?
Come dicevamo prima, sapere qual è lo strumento che abbiamo in mano è importantissimo: del laser dobbiamo conoscere le proprietà della sua lunghezza d’onda, sapere quant’è la penetranza che ha il suo raggio, qual è l’energia necessaria per ottenere un danno profondo a livello della parete venosa per ottenere un buon risultato… se si utilizza un’energia troppo bassa, ci sarà sì una reazione trombotica all’interno del vaso, perché comunque un danno, un insulto termico è stato fatto, ma non sarà così profondo da produrre un danno completo della parete venosa e ciò porterà quasi certamente a una ricanalizzazione nel tempo del tronco safenico trattato. È pertanto fondamentale, prima di approcciare queste metodiche, investire del tempo per conoscere le caratteristiche tecniche delle tecnologie e capire il loro funzionamento.

Biolitec ha un gruppo tecnico di supporto che si occupa, insieme ai chirurghi, anche della parte formativa: c’è stato un grosso lavoro, e continua ad esserci, di Ricerca e Sviluppo sulle fibre, grazie anche al vostro supporto sul campo; sempre in merito alla formazione, c’è sempre l’auspicio e il desiderio che voi facciate da traino pertutti quelli che si approcciano a questa tecnica da nuovi fruitori e quindi ciò possa può essere molto utile: avere uno scambio continuo non solo con una parte tecnica aziendale ma anche con un gruppo di esperti chirurghi, tuoi colleghi, che possano aiutarti nel percorso può fare la differenza…

È un aspetto molto importante: sono certa che la forte collaborazione che c’è sempre stata con Biolitec e con Spreafico e poi con tutti gli utilizzatori è stata sicuramente un punto di forza, perché chiaramente le difficoltà che abbiamo avuto con la metodica, così come le incertezze o i problemi di comprensione dello strumento, sono state chiarite molto facilmente, proprio grazie a questo
scambio continuo tra chi lo utilizza e chi magari conosce approfonditamente la parte tecnica e ingegneristica.

Ricordo che inizialmente c’era una sorta di timore malcelato sul fatto che i laser potessero essere pericolosi…le prime volte alcuni chiedevano che le pareti delle sale operatorie venissero colorate di nero… mentre gli studi condotti da ingegneri fisici hanno dimostrato che questi non sono laser pericolosi da questo punto di vista…

Certo, infatti questo poteva essere considerato uno dei limiti dell’uso del laser, soprattutto all’inizio, perché spesso le ingegnerie cliniche dei vari ospedali ponevano – e forse pongono ancora adesso – delle limitazioni all’uso del laser in determinate sale operatorie o negli ambulatori attrezzati, proprio perché molto spesso le pareti delle sale operatorie hanno un mobile in acciaio o hanno qualcosa di riflettente… quindi questi erano elementi che limitavano un po’ l’acquisizione di questo tipo di strumentazione

in certe sale operatorie che non erano considerate idonee per usare questa metodica; ora noi sappiamo, grazie al supporto di studi fisici e sulla materia, che il nostro laser ha già perso potenza a distanza di pochi centimetri da dove viene emesso; quindi, di fatto, anche se fosse al di fuori della vena, il raggio non sarebbe in grado di produr-
re grossi danni; in ogni caso è un laser che viene usato in sede endovascolare e quindi viene messo in azione e funziona solamente all’interno del vaso: da lì non viene emessa alcuna luce dannosa per chiunque sia presente nella sala operatoria; come già accennato, è bene che l’utilizzatore conosca le potenzialità o i pericoli che possono essere connessi a questa metodica e che quindi sappia bene che questa fibra non dev’essere mai rimossa dalla sede endovascolare prima di essere spenta: basta sem-
plicemente staccare il piede dal pedale che attiva il laser affinché la fibra non emetta più alcun raggio pericoloso.

Pensa che in futuro ci potranno essere ulteriori evoluzioni?

Ciò che possiamo dire è che attualmente il laser a 1470 nm e la fibra radiale a doppio anello hanno raggiunto il mas-
simo della loro potenzialità e standardizzazione e ritengo difficile che ci possa essere un ulteriore passo avanti; si
affacciano adesso sul mercato laser con altre lunghezze d’onda sempre con l’acqua come target, come il laser a 1940 nm per esempio, che hanno il vantaggio di causare meno dolore, perché richiedono quantità di energia inferiore per produrre il danno e necessitano quindi di meno anestesia; però occorre sottolineare che l’anestesia tume- scente non è solo analgesia, quindi secondo me anche con queste lunghezze d’onda è comunque difficile che possa essere abbandonata l’anestesia tumescente…

Anche perché funziona da cuscinetto e quindi è di aiuto…

Esattamente, ci aiuta a proteggere anche i tessuti circostanti e quindi a evitare le complicanze che sono quelle che noi assolutamente vogliamo ridurre o addirittura azzerare; ho saputo che ci sono anche delle nuove fibre a emissione radiale con più anelli, per cercare di valutare se può essere anche questo un ulteriore miglioramento; poi d’altra parte è ovvio che essendo un ambito di fisica e ingegneria può essere che vengano messi a punto ulteriori miglioramenti tecnologici ugualmente efficaci e meno dolorosi. Il tutto va sempre però documentato da un’adeguata letteratura con follow-up almeno a medio termine (cinque anni almeno). In ogni caso, come abbiamo sempre fatto, ci aggiorneremo e continueremo a sperimentare le nuove metodiche che
verranno proposte.